UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI REGGIO CALABRIA  -   FACOLTÀ DI ARCHITETTURA
CORSO DI  LAUREA IN PIANIFICAZIONE TERRITORIALE, URBANISTICA E AMBIENTALE
ANNO ACCADEMICO 1999/2000
* * *
(Comunicazione svolta nell' ambito del Corso di Analisi dei Sistemi Territoriali)

LE “RAGIONI” DELLA MAFIA

di  Domenico Labate

* * *

Di fronte ad un fenomeno come quello della criminalità associata, che ha come caratteristica la persistenza su base prevalentemente familiare, è necessario indagare con l’adozione di parametri che fuoriescano dall’ analisi socio-antropologica, o peggio “semplicemente” criminologica. Una valutazione approfondita del fenomeno, che ha assunto caratteristiche strutturali in Italia solo a partire dal secondo dopoguerra, non può fare a meno dello strumento principale dell’ analisi storica: il fattore economico. 

Perché la mafia è risultata così a lungo vincente? Dopo l' assassinio, nel 1983, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, questa domanda si è fatta strada in modo sempre più inquietante, di fronte alla prima pesante sfida alle istituzioni nazionali, che sino ad allora erano state assai tiepide nel valutare il fenomeno (come in Calabria) o meglio molto attive nel non farlo recepire nella sua gravità presso l' opinione pubblica nazionale.

Per una singolare ironia del destino, il generale era omonimo di un suo collega, piemontese, di nome Della Chiesa, che nel 1861 aveva lanciato da Catanzaro (probabilmente con maggior fortuna) questo proclama:

«Comando Generale della Sedicesima Divisione Attiva / Proclama

Onde aderire ai voti di molti fuorusciti, che ravvedendosi dell' errore commesso nel prendere le armi contro la patria libertà per sostenere diritti che il voto universale degl' Italiani ha per sempre aboliti; S.E. il Comandante Generale delle truppe stanziate nelle Province Meridionali, valendosi dei poteri confertigli, accorda piena amnistia a tutti coloro che da oggi in avanti si presenteranno alle Autorità costituite sia Civili che Militari, per ritornare in seno alle loro famiglie.

Avranno pure indulgenza coloro che trascinati nei movimenti reazionari da semplici delitti comuni mostrassero col pentimento e col riprendere i loro lavori che non saranno mai per ricadere in simili reati.

Nel portare alla pubblica conoscenza le suddette determinazioni io mi lusingo che tutti quelli che vi possano avere interesse vorranno approfittarne onde non incorrere in quel castigo severo ch' è riservato a chiunque tenti di ribellarsi ai voleri della Italiana Nazione. Dal quartier Generale in Catanzaro il 22 Luglio 1861. Il Comandante la Divisione: DELLA CHIESA”.

Per decodificare la strage di Palermo, in cui Dalla Chiesa fu trucidato con la moglie, Emanuela Setti Carraro e i militari della scorta, si tentò di abbozzare delle risposte che coglievano solo il dato “locale” del fenomeno: «E' chiaro che, nell' arco dei “poteri” reali che dominano la Sicilia -aveva detto un magistrato a Reggio Calabria- la mafia non tollerava più, ormai, di essere “soltanto” alla pari: doveva dare un segno della sua forza, formalizzare la sua sfida allo Stato. Allo stesso modo -aveva proseguito- se in Calabria non ci sono stati finora delitti “eccellenti” è perché la compenetrazione della criminalità organizzata nelle pubbliche istituzioni è stata tale da non renderli necessari».

Dopo quattro anni, a Reggio, sarebbe stato assassinato il presidente delle Ferrovie dello Stato, Lodovico Ligato; dopo dieci sarebbe stata la volta del sostituto procuratore generale della Cassazione, Antonino Scopelliti. Il ‘cambio di stile’ avvenuto con l' omicidio Dalla Chiesa doveva dare un segnale evidente, spingere ad indagare sui rapporti tra mafia e politica. Già Leonardo Sciascia, con la sua acuta riflessione, aveva detto che “nel Mezzogiorno molti politici non hanno né bisogno né paura della mafia, ma sono un prodotto della mafia”.

* * *

La mafia è da lungo tempo un consapevole strumento di “governo” del territorio nel meridione. Questo porta a una riflessione sulla natura e la qualità dei poteri del nostro Stato, per comprendere se conserva la sua connotazione costituzionale. I costituzionalisti hanno individuato infatti la nascita dello stato moderno in un elemento caratterizzante: con il contratto sociale, il monopolio della violenza è stato sottratto ai singoli o gruppi per riservarlo allo Stato. 

Se dunque i mafiosi esercitano indisturbati (ed indisturbabili) un loro monopolio della violenza ciò vuol dire o che per molto tempo è scomparso ciò che chiamiamo “Stato” o, piuttosto, che essi lo rappresentano in un qualche modo: un dato che tutti si affrettano ad esorcizzare ma che rimane in evidenza, ogni giorno. “A Reggio non esiste alcuna attività economica che non sia sotto il controllo della mafia” dichiara ancora nel 1995 un magistrato della procura distrettuale, vivacemente contestato da esponenti politici.

Lo scivolamento nel modello balcanico della Calabria, situata in un punto strategico del Mediterraneo, (ma si potrebbe richiamare la Colombia, o la Bolivia) potrebbe essere coscientemente perseguito da grandi organizzazioni multinazionali del crimine, come dimostrano i traffici di armi, emigranti clandestini, droga, preziosi, narcodollari, il continuo ritrovamento in varie parti della Calabria di piantagioni di cannabis indica. 

La criminalità mafiosa ha una carica eversiva di carattere strettamente politico. Non si traggono tutte le conseguenze dal fatto che in Calabria i mafiosi hanno un profondo controllo del territorio. E il territorio non è solo l' ultima risorsa rimasta al Sud, ma anche uno dei tre elementi che i costituzionalisti indicano come costitutivi di uno Stato. 

Nella commissione di vari delitti è necessario dotarsi di strumenti che li consentano: armi, mezzi di trasporto, coperture bancarie, e così via. Il delitto ‘principe’ della mafia calabrese per molti anni è stato il sequestro di persona. E lo ‘strumento di lavoro’ per compiere il sequestro di persona è il territorio. Se non si controllano interi comprensori, con le case, gli abitanti, i lavoratori, le attività produttive, qualche pezzo delle istituzioni, il sequestro di persona è impossibile. Tutti in un paese devono sapere che c'è il sequestrato e tutti devono stare zitti, anche quando incrociano il latitante non troppo ricercato che sovrintende a tutte le attività illegali.

Non sono molti quelli che considerano il sequestro di persona come il reato più “politico” che si può commettere: eppure il sequestro Moro doveva insegnare qualcosa. Già tra il 1860 e i primi del '900 il cosiddetto brigantaggio aveva a lungo posto in essere questo tipo di reato, che poi è venuto alla ribalta mondiale col sequestro della nave 'Achille Lauro', con i dirottamenti aerei, coi rapimenti politici che tutti sanno.

L' effettuazione di un sequestro presuppone dunque il possesso di uno 'strumento di lavoro' che si chiama territorio: una padronanza, un controllo, un potere che si pone in totale alternativa con l' esistenza dello Stato costituzionale. 

Coi sequestri di persona, dunque, la mafia ha notificato alla comunità nazionale il suo essersi costituta come “stato”, e ha sfidato chiunque a dimostrare il contrario. La storia criminale ha poi dimostrato che la quasi totalità dei sequestrati, quando è stata liberata, ha avuto la libertà per decisione dei mafiosi (non di rado con trattative sommerse con le forze dell’ ordine sotto la direzione di magistrati) e quasi mai per un colpo di mano degli inquirenti.

* * *

Cerchiamo di capire meglio perché nel Sud alcuni suoi abitanti non si trasformano in cittadini: ciò dipende da come è nato lo Stato unitario. In Italia come in Europa, il Risorgimento è stato una “rivoluzione borghese”. Una prospera borghesia nel nord, non tollerando più che tra Torino e Palermo ci fossero cinque dogane, non accettando più che il suo potere economico non avesse un corrispettivo politico nell' ambito e sul modello dei più consolidati stati costituzionali europei, lancia la parola d' ordine dell' Unità nazionale.

I cafoni meridionali rispondono. Eppure non avevano, come invece nel Lombardo-Veneto, stranieri da scacciare, né aspiravano a modifiche costituzionali di cui non erano ancora coscienti: accolgono Garibaldi perché si aspettano di ribaltare i rapporti di classe, nelle campagne, contro i baroni, il notabilato borbonico, i privilegi degli ecclesiastici. Compiuta la “liberazione”, però, l' intelligente tessitore Cavour si fece consegnare da Garibaldi i territori del Sud per darli allo stato piemontese. E quando Garibaldi obbiettò che l' unità non è compiuta senza lo stato pontificio, venne rapidamente messo fuori legge. 

Lo Stato unitario nasce quindi dall' alleanza della borghesia imprenditoriale del nord coi “galantuomini” del sud. “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi” è l' ormai celebre citazione del nostro contemporaneo Tomasi di Lampedusa: con l' unificazione nazionale, per il sud cambiano solo i padroni.

Se cerchiamo di esaminare quale era la composizione del padronato nel sud, vediamo che non mancavano imprese industriali come le filande, poi distrutte dalla “crisi” venuta con l' unità e la 'tariffa' fiscale piemontese, nella 'piccola Manchester' di Villa San Giovanni. Ma in un' economia che restava essenzialmente agricola, alla quale programmaticamente il nuovo stato unitario negò un ruolo di crescita industriale, padroni restavano i grandi proprietari terrieri, e i grandi mediatori della borghesia di stato, che con l' unificazione disposero a loro piacimento degli immobili demaniali, delle terre confiscate alla Chiesa e ai vecchi padroni borbonici. 

Avviato il processo unitario, i contadini tentarono debolmente di inserirsi nel meccanismo di cambiamento, di strappare il sogno di secoli, la terra, ma si trovarono ricacciati indietro. Tentano qualche ribellione, ma, come già Nino Bixio aveva mostrato con decisione a Bronte, quando non interviene l' esercito regio, ora si trovano di fronte i “mazzieri”, al servizio dei nuovi padroni galantuomini, che hanno soppiantato la casta nobiliare borbonica. I mazzieri, antenati dei mafiosi, avevano campo libero per reprimere con la violenza ogni forma di dissenso, individuale o organizzato. Se erano tanto spavaldi, però, non lo dovevano soltanto ai padroni che li stipendiavano, ma anche allo Stato, che garantiva l' impunità per la loro violenza. 

Per nessuno, in uno stato di diritto, può esistere, allora come oggi, la possibilità di riappropriarsi del monopolio della forza, (non a lungo), se non con il consenso, nei fatti, di chi lo dovrebbe reprimere: la debolezza e l’acquiescenza prolungate per decenni sono in realtà un consenso, una complicità. 

Anche i fascisti, negli anni ‘20, poterono, pressoché indisturbati, devastare sedi sindacali, assassinare ed intimidire dirigenti politici, conquistare di fatto il potere: non perché la classe operaia e contadina fosse più debole o poco capace di reagire alle violenze, ma perché, quando le squadre dei fascisti uscivano, i carabinieri avevano l' ordine di restare in caserma. 

Quando gli operai reagivano, le forze dell' ordine intervenivano per soffocare la loro protesta; e quando si recavano a chiedere giustizia trovavano giudici molto sensibili alla “ragion di stato” del padronato. E non è mai accaduto che qualche giudice si schierasse dalla parte del più debole. Il più debole è rimasto a guardare per più di un secolo il prepotente affermarsi con il silenzio dello stato, ed ha tratto le sue conclusioni. In fondo, per la gente che riusciva a restare onesta, lo stato aveva solo la faccia della coscrizione obbligatoria e della famigerata tassa sul macinato: scegliere tra mafia e stato non era (e non è) difficile, dato che in fondo la prima è percepita come un altro aspetto del secondo. 

Nel ventennio fascista (qualcuno pretende che i mafiosi fossero scomparsi), i mazzieri divennero “organici” del regime, anch' esso nato per rafforzare l' alleanza tra borghesi e galantuomini, un' alleanza che la grande kermesse popolare della guerra mondiale aveva tentato di rimettere in discussione, sull' onda dell' esempio russo, tra il 1919 ed il '21.

I fascisti dunque trionfarono non tanto per l' uso spregiudicato della forza, quanto per la sottoscritta garanzia della loro impunità: allora come oggi, di fatto, la logica di sopravvivenza dei mafiosi impuniti (che appaiono come una minoranza protetta) è stata uguale: l' impunità è oggettivamente fondata sulla voluta inefficienza degli apparati preposti alla repressione.

* * *

Anche oggi non sono pochi gli “organici” mafiosi all' interno delle strutture pubbliche. E alla carica eversiva della mafia a lungo non si è risposto. Altro atteggiamento si è tenuto per il terrorismo degli anni '70/'80. L' eversione politica ha realmente minacciato l' establishment erede dell' alleanza borghesi - galantuomini, rischiando di condurre ad un' involuzione, a causa delle leggi autoritarie e non garantiste che sembrava necessitare. 

Il terrorismo minacciava i rapporti tra classe operaia (una delle varie classi che vi sono oggi nelle società industriali) ed imprenditori, metteva in discussione i diritti sindacali, per la criminalizzazione indifferenziata che si tentò di imporre a tutto ciò che rappresentasse le esigenze popolari, come insegna la gestione della strage di Piazza Fontana e di quelle che sono seguite. 

Al terrorismo, alla fine, ha risposto il tessuto economico, e conseguenzialmente democratico, del Paese più sviluppato (e più minacciato), fino alla sua sconfitta. In quel tessuto si è saldata l' alleanza del ‘patto tra produttori’: classe operaia e imprenditori, che caratterizza la storia del Paese nei decenni di fine secolo. Il terrorismo è stato sconfitto prima nelle coscienze che nelle prigioni. E’ stato definitivamente messo fuori causa dall' attacco “militare” che lo stesso generale Dalla Chiesa portò al mondo dell’ infantilismo rivoluzionario ed agli ambienti sociali o culturali che fiancheggiavano il fenomeno. 

Per quella lotta, che ha coinvolto alla fine larghe fasce popolari (ad eccezione dei “non garantiti”) hanno pagato un prezzo durissimo le categorie più esposte: alcuni magistrati, politici, giornalisti, sindacalisti. Ma non è fortunato un paese che ha bisogno di eroi come Falcone e Borsellino: al terrorismo dei mafiosi non si è risposto come a quello degli anni di piombo: eppure è identica la carica di eversione politica.

Va sottolineato che molti magistrati del sud sono andati a fare il loro dovere contro il terrorismo senza attendere (e senza ricevere) particolari gratificazioni. Oggi in Calabria e nel meridione continua a mancare negli organici, su posti già disponibili, quasi un terzo dei magistrati, e le nuove assegnazioni sono sempre di là da venire. Pochi magistrati vengono volentieri in questa regione, al punto che si sono studiati e legittimati meccanismi che incentivano carriera e stipendio per i magistrati 'disposti' a trasferirsi al sud, mentre la normativa sulle assegnazioni d' ufficio rimane nebulosa. 

Seguendo la logica degli incentivi ai magistrati, si crea un precedente, sul piano dei diritti costituzionali delle popolazioni, a dir poco pericoloso, se non razzista: uno stato democratico e moderno ha l' obbligo di garantire l' esercizio della giurisdizione in ogni parte del suo territorio. E d' altra parte ci sarebbe la possibilità legittima che anche insegnanti, tutori dell' ordine, medici, e magari anche netturbini reclamino giustamente aumenti di stipendio e la pensione a 50 anni, per accettare di andare a lavorare in terra di mafia, perché non sono affatto meno in pericolo degli inquirenti.

* * *

La prima democrazia che si costruisce sul territorio è quella dei rapporti economici, perché essi rappresentano il primo livello dell' istinto di conservazione e di sopravvivenza. Quando cresce l' economia, attorno alle fonti produttive si aggregano gli interessi di tutela degli strumenti di benessere e di lavoro, di crescita ordinata, con il sostegno convinto e vigile della popolazione di cui i lavoratori occupati sono parte essenziale. 

Ma se una crescita economica è negata, anche la democrazia (cioè un criterio di governo del territorio affidato all' iniziativa ed al consenso dei cittadini) è negata in toto.

La mafia si è configurata sempre più, dunque, come una scelta di gestione del territorio voluta dal paese reale, figlio di quell' unificazione, che ha potuto forse considerare il fascismo un episodio, ma che mantiene inalterati i rapporti di forza di quell' alleanza. Il paese legale (le istituzioni) rispecchia ancora questi interessi, fondati su un' organizzazione dell' economia che deve vedere il meridione sempre perdente, per ovvî motivi di alternatività nello sviluppo economico tra nord e sud, in una situazione internazionale caratterizzata da una sempre maggiore difficoltà nel mantenere una concorrenzialità dell' Italia su mercati vieppiù difficili da penetrare.

Ancora oggi, il meridione non deve produrre, deve solo fornire braccia per calmierare il mercato del lavoro (sino a che la drammatica emigrazione extracomunitaria non renderà superflui anche loro), deve fornire territorio per gli insediamenti industriali pericolosi e inquinanti (come si voleva a Gioia Tauro), intelligenze per dirigere i servizi avanzati. Il Sud deve solo consumare, spendendo i soldi che l' assistenzialismo di Stato riesce a scremare con l' imposizione fiscale mirata sopratutto sul lavoro dipendente, presso chi lavora e produce o, meglio, è ammesso a questi diritti. 

* * *

A fronte di un Mezzogiorno in cui, a milioni, donne, giovani, diplomati e laureati sono disoccupati senza prospettiva alcuna, faccia riflettere (fatti salvi i giusti principî antirazzisti che devono ispirare la convivenza nel nostro paese) la presenza in Italia di quasi un milione e mezzo di immigrati in gran parte clandestini: sono i nuovi meridionali che accettano qualsiasi lavoro, qualsiasi salario, che contribuiscono loro malgrado a privare di significato decenni di lotte e di conquiste sindacali. E non a caso sono gli strumenti di penetrazione dell' economia mafiosa, clandestina, del “sommerso” che produce e vende merci per almeno 50.000 miliardi l' anno senza pagare tasse o contributi previdenziali. 

E' del tutto incredibile che sul mercato del lavoro in Italia (e dei bisogni di accudirvi in termini di servizi) si sia improvvisamente scaricata una intera, nuova nazione, senza che nessuno degli addetti ai lavori si sia accorto di ciò che accadeva. 

E’ sempre stata una costante illusione di un certo ceto imprenditoriale il voler ridurre al minimo il costo del lavoro aumentando la massa dei disoccupati (in questo caso dei disperati) disponibili. Ma ci si nasconde poi che i costi sociali (servizi, sanità, scuola, ordine pubblico) diventano alla lunga insostenibili, per quanto si tenti di lasciarli sommersi, almeno fino a che lo stesso standard di qualità della vita non sarà garantito ai residenti in tutte le aree del paese.

* * *

Ogni territorio, quindi, ha la sua economia, prima, e poi, di conseguenza, la criminalità che corrisponde a questa economia: al sud, pertanto, spettavano e spettano i mafiosi, sino a che i rapporti di sviluppo economico tra le varie aree del paese non saranno modificati. 

Il paese reale, che è quello rappresentato nel Parlamento, ma pure quello dell' imprenditoria, quello del sindacato (in cui troppa parte ha assunto l' influenza dei partiti politici), quello dell' economia sommersa, quello delle vecchie e nuove P2, dei grand commis di Stato e delle Regioni, delle lobbies dentro e fuori di quello che era il sistema delle partecipazioni statali, della massoneria “pulita”, dei quadri tecnocratici, dell' alta burocrazia, del sistema creditizio (che rappresenta insieme privilegi e arroganza nel drenare le risorse al sud), quello delle grandi aggregazioni produttive e di quelle parassitarie, mantiene immutati i termini del contratto post-unitario anche attraverso il sistema mafioso. 

Un pò dappertutto ci troviamo di fronte a 'prenditori' e non imprenditori, a moneta cattiva che scaccia quella buona: nessun imprenditore sano può competere con l’economia mafiosa che dispone di migliaia di miliardi a tasso zero.

Bisogna domandarsi nitidamente qual è, se c’è, il ruolo della grande imprenditoria e finanza nazionale ed internazionale di fronte allo strapotere di fatto dei mafiosi nelle attività economiche. 

Non si capisce, ad esempio, perché la Fiat (come risulta dagli atti del processo ‘“De Stefano+59” a Reggio Calabria, (che ha visto insieme, alla fine degli anni '70, le maggiori cosche mafiose reggine nell' aggiudicazione dei subappalti per la realizzazione dell' area e del porto industriale di Gioia Tauro), ha venduto sulla semplice parola ad un oscuro insegnante di scuola media quale prestanome macchine per movimento terra per quasi due miliardi (prezzi del 1977). E anche recenti processi per le infiltrazioni mafiose nella gestione del porto hanno mantenuto il consueto copione secondo cui l’imprenditore (questa volta del nord) è sempre “vittima” e mai complice dei mafiosi. 

Non si capisce perché, già nel 1983, mentre i mafiosi minacciavano tutti i consiglieri comunali dell' appena costituito comune di San Ferdinando di Rosarno, affinché non andassero in aula a votare contro la centrale termoelettrica che si voleva installare nell' area industriale di Gioia Tauro, su tutta la grande stampa, d'informazione ed economica, si gridava che la centrale era vitale per salvare le industrie elettromeccaniche del nord, che avrebbero versato sull' orlo del fallimento.

Non si capisce perché concessionarie di autoveicoli ed agenzie d' assicurazione sono ormai “assicurate” ai notabili della mafia, come confermano corposi sequestri di beni mafiosi effettuati in base alla legge Rognoni-La Torre. 

Qual è il ruolo nella lotta alla mafa della grande industria, della grande finanza? E perché mai i sequestri e le confische patrimoniali sono ilrisultato di indagini che si fermano sempre in loco? Forse che non si osserva che grandi produttori e importatori nazionali ed internazionali, assicuratori e banchieri non aspettano altro che di trattare col nuovo “vincente” per affidare loro la propria rappresentanza? Come mai quando si pongono sotto sequestro concessionarie mafiose i produttori non revocano loro i propri marchi? E se sono di fatto complici, perché non vengono mai indagati, se sono loro i percettori finali dei guadagni mafiosi? Forse non bisogna disturbare le pacifiche ed oneste categorie imprenditoriali e lavoratrici nelle aree forti del Paese e d’ Europa?

Si capisce quindi perché a Gioia Tauro lo Stato ha speso (ed ha fatto il suo dovere) centinaia di miliardi per realizzare il più grande porto del Mediterraneo, che è entrato in funzione solo dopo la sua cessione a imprenditori del nord Italia, prima, e ora del nord Europa. C'è a lato un' area industriale di 477 ettari, dove però nessuna industria si consente di realizzare, e quasi sempre con l' alibi della presenza mafiosa.

Bisogna sgombrare gli equivoci: i soldi spesi in Calabria dall' intervento pubblico sono andati ai mafiosi? Forse, anzi quasi certamente, e non solo a loro. Ma servono per comprare betoniere, ruspe, tondino, cemento, computers, pellicce, auto di lusso, gadgets che fanno status.; oppure sono stati investiti nella Borsa, depositati nelle numerosissime filiali delle banche settentrionali operanti al sud. E' più giusto dire che i soldi che lo Stato ha speso e spende nel sud ritornano immediatamente nelle aree forti del Paese e d’Europa, sotto forma di denaro fresco, commesse per le fabbriche, posti di lavoro per il triangolo industriale. 

Bisogna smetterla di parlare della mafia, e cominciare a parlare dei mafiosi, e dovunque si trovino. Ci sono più informazioni sulle guerre di mafia nella provincia di Reggio Calabria a Pisa, dove risiede una mega-impresa edilizia che ha trasformato per 25 anni la provincia reggina in un cantiere permanente, che non in tutto l' Aspromonte. 

E dal momento che non è vero che contano giornali e giornalisti, ma editori e direttori, la grande informazione nazionale continua a sottacere fatti assai gravi per mantenere inalterato il flusso affaristico-finanziario verso nord. 

Un esempio macroscopico riguarda i 200 miliardi già spesi in Aspromonte per una diga: un invaso di 18 milioni di metri cubi realizzato all’ interno di un parco nazionale “protetto”! E ci si appresta a spendere altri 150 miliardi per un’opera che servirebbe pochissimo a restituire al comprensorio reggino l’acqua. Essa oggi viene dispersa in condutture vetuste, o rubata da agricoltori protetti dai mafiosi. Di certo, se la comunità nazionale fosse stata a conoscenza che nel 1979 la Electroconsult di Milano si è preoccupata con uno studio, (prontamente finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno) dei fabbisogni d’acqua nel reggino proiettati al 2025, e che la cosa poteva costare così cara, qualcuno avrebbe potuto fare delle obiezioni. Se si fosse saputo che c’era una torta da 350 miliardi da spendere in Aspromonte, di certo ci sarebbe stato di che far nascere una piccola Svizzera, col turismo legato all’agricoltura, alla viabilità, al recupero antropologico della memoria storica: invece no, solo cemento e calcestruzzo per 18 milioni di metri cubi d’acqua che incombono sulla frana detta del “Colella”, con buona pace dell’ ambientalismo locale e nazionale.Lavori eseguiti, regolarmente, da imprenditori mafiosi. 

* * *

Bisogna capire, allora, all' interno delle forze sociali e politiche, meridionali e nazionali, che le linee di lotta alla mafia e per il progresso civile ed economico del mezzogiorno sono trasversali, e non seguono più contorni ideologici ma geografici. 

E, infatti, cosa voleva dire negli anni '50, la parola d' ordine del “mezzogiorno all' opposizione”? Che si era compreso che non c'è più unanimità nei partiti (eccetto che per un certo ‘monolitismo’, di moda fino agli anni '80), nei sindacati, nelle istituzioni nazionali, in tema di riscatto economico e lotta ai mafiosi, perché gli interessi divergono in termini geografici: su questo punto, il paese reale, le istituzioni democratiche, dovranno fare chiarezza sopratutto al proprio interno se si vuole affrontare seriamente il tema della lotta alla criminalità organizzata senza enfasi autoreferenziali.

E' necessario riaffermare con forza che la libertà e la democrazia non sono divisibili. Non si può essere liberi a Milano ed oppressi dai mafiosi a Reggio Calabria e dire che l' Italia è un paese libero, perché non è vero. Bisogna porsi seriamente il problema del ripristino delle garanzie costituzionali (prima tra tutte la libertà di intrapresa economica) in Calabria e nel Mezzogiorno, o si va ad una sottovalutazione del potenziale eversivo ed anticostituzionale della mafia che ormai è contigua alla complicità. 

Se (per fare un elenco molto incompleto) con Carnevale, Mattarella, Terranova, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Juliano, De Mauro, Fava, Francese, Siani, e, perché no, Ferlaino e Ligato, nel sud è stata falciata col piombo una parte significativa della classe dirigente italiana, bisogna riflettere, ricordando che la storica impunità per questi delitti è la controprova che per ogni delitto eccellente c’è un mandante eccellente. 

Il modello colombiano è passato in Italia (non a Palermo, o a Napoli, o a Reggio, ma in Italia) ed i fatti lo hanno dimostrato ancor prima delle stragi con le autobombe: oggi si è entrati, sopratutto in Calabria, in una nuova fase, quella del modello colombiano - balcanico, e non solo per le evidenti saldature della mafia d’oltre Adriatico con quella nostrana.

In Calabria viene ancora ogni giorno di più falciata la Costituzione: è un grave allarme, che deve riguardare tutto il paese. Sorge più che mai acuta la consapevolezza che il problema del Mezzogiorno riguarda tutta la nazione, perché il sud è rimasto a lungo (e per colpe e scelte che nascono fuori di esso) una sempre più inquietante palla al piede della crescita democratica (od “europea”, se si preferisce) dell' Italia, che rimane, nonostante tutto, tra i primi paesi industriali del mondo.

Nessun potere in Italia, reale o legale, nessuna lobby, nessun gruppo manageriale potrà mai pensare di andare avanti, al passo con le altre nazioni progredite, se non si sceglie di abbandonare logiche e strumenti del potere mafioso: ha cominciato ad accorgersene chi parla con preoccupazione della “linea della palma” paragonandola alla crescita dell' influenza mafiosa. Si dice, infatti, che quest' albero tropicale ogni anno riesce a spostare verso nord di un metro il proprio habitat: e la risposta a questo timore è evidente nel profondo rigurgito di razzismo antimeridionale che ha legato vecchi complessi di colpa e nuovo benessere.

* * *

La Calabria ed il mezzogiorno, come sappiamo, non si trovano più all' interno di un contesto economico chiuso, regionale, o nazionale. Da molto tempo questa regione deve misurare i suoi eventuali spazi di crescita con l' esistenza dei vincoli determinati dalla Unione Europea. 

La logica che ha presieduto alla nascita dell' UE è stata di evitare che tutti i paesi che ne fanno parte immettano sui mercati interni (in agricoltura, e nell' industria) più di quanto possano assorbire, e che si producano troppe merci dello stesso tipo nei vari paesi membri. Questo dovrebbe evitare cadute dei prezzi, guerre doganali, licenziamenti in settori che la concorrenza internazionale rende precari. Di anno in anno, i ministri degli esteri dei 15 si riuniscono per decidere insieme quanto latte, o quanto acciaio (o altri tipi di merce) produrre complessivamente, ed in che misura per ciascun paese. 

E' chiaro che l' Italia non ha smesso di produrre acciaio, ma se ne vede assegnata una quota parte; non ha smesso di produrre latticini, carne, zucchero, ma è ammessa a immetterne sul mercato solo una certa quantità ogni anno. Se un prodotto agricolo vede cadere i prezzi, l' UE interviene rimborsando ai produttori una percentuale del mancato guadagno (le integrazioni) e se qualche paese produce in eccesso, violando le quote comunitarie assegnate, si vede multato. Per impedire che si produca in eccesso, però, l' Unione ha preso l' abitudine di pagare i produttori perché distruggano le colture o gli allevamenti: la chiamano incentivazione. Si monetizza con valuta spesso precaria la sistematica distruzione di risorse produttive nelle realtà più deboli sotto il profilo culturale, economico e politico. 

All' interno di ogni stato, pur non cessando una produzione, viene deciso, in sede puramente politica e non di contrattazione economica tra le regioni, chi ha diritto a produrre e dove, e si premia chi più ha. E’ pur vero che in Italia un referendum ha abolito il ministero dell’ agricoltura, secondo la “ovvia” logica che le quote di produzione dovessero nascere da un accordo paritario tra regioni ed Unione: ma la posta in gioco era troppo alta per ché si avesse rispetto degli strumenti di democrazia diretta. Chiuso il famigerato ministero dell’ agricoltura, si è abusivamente istituito il ministero delle risorse agricole a tutela delle aree forti, ed il gioco è fatto. 

E' sotto gli occhi di tutti che la Calabria (e gran parte del mezzogiorno) non produce affatto, e non perché non abbia le competenze o la capacità, ma perché la sua storica debolezza politica rispetto alle aree forti del paese ha impedito che conquistasse una sua quota parte di produzione sui contingenti assegnati all' Italia, almeno rispetto al mercato europeo: i mafiosi fanno da garanti di questo modello di non-produzione. Ed è significativa, sull' altro versante, la violenta protesta degli iperproduttori agricoli delle aree forti che si rifiutano, occupando autostrade e aeroporti, di pagare le multe comunitarie.

Nel sud le campagne si sono svuotate, la plebe urbana dei disoccupati e sottoccupati si è ingrossata (e così la manovalanza mafiosa) sono scomparsi i braccianti e con loro il sindacato contadino. Nella regione è tutta una sinfonia di integrazioni ed incentivazioni, che rapidamente sono finite, nell' indifferenza generale, in mano ai mafiosi.

Di fronte al dilagare dell’ economia mafiosa si è verificato quello che negli anni ‘80 sembrava solo uno slogan, e cioè che il paese che conta è finalmente riuscito a trasformare la questione meridionale, ormai abbandonata, in mera questione criminale. 

La Calabria sarebbe ormai incapace di produrre da sé classe dirigente non inquinata, e quindi le si sottrae la sua rappresentanza nativa, per sostituirla magari con esponenti di altre parti del paese, come dimostra la pletora di presenze “esterne” nelle competizioni politiche, spesso incentrate, come per la candidatura emblematica della madre di un sequestrato, sulla creazione di una rappresentanza parlamentare dedicata esclusivamente al tema della repressione del crimine. L’elezione di un alto magistrato calabrese a presidente della regione non si sottrae a questa logica, così come quella del suo competitore, un intellettuale di alto profilo assente dalla Calabria da trent’anni.

* * *

Nel 1992/93 qualche spiraglio sembrava aprirsi con la nascita del mercato unico europeo, che ha trovato la situazione dell' “economia” meridionale in una condizione interessantee contraddittoria. Da una parte, la storica discriminazione produttiva. Dall' altra, due fenomeni concomitanti che potevano spingere al sud grandi risorse. 

Il primo fenomeno è che la megalopoli che ormai lega Torino, Genova e Venezia è arrivata al collasso per l' enorme concentrazione di attività industriali ed agricole che vi si è insediata: c' è l' allarme per l' aria (il che non è poco); nella pianura padana gli scarichi industriali inquinano fiumi, intaccano le falde dell' acqua potabile; l' Adriatico è in crisi, e così via. Questo condurrà nei prossimi anni ad una rinnovata aggressività del triangolo industriale per “beneficare” il territorio meridionale con industrie, le prime delle quali sono naturalmente le più inquinanti, come ha attestato il tentativo della centrale termoelettrica di Gioia Tauro, non costruita per la tenace resistenza della popolazione.

Il secondo elemento è che l' apertura delle frontiere in Europa consente al' UE, presa nel suo insieme, di produrre beni e servizi in misura maggiore rispetto alla somma del potenziale dei singoli stati membri, come ha enfaticamente annunciato a Reggio l' allora presidente della Confindustria, Pininfarina. Se il sistema economico (imprenditoriale e finanziario) italiano vorrà restare alla pari con i partners europei, allora, dovrà mettersi in grado di aumentare il prodotto interno lordo. Qui ritorna in gioco il ruolo del Mezzogiorno, come area naturale di una espansione non rinunciabile del sistema produttivo del paese.

Se si vuole uscire oggi dall' economia precaria che il sistema mafioso mantiene, bisogna che parti sociali, politiche, imprenditoriali, ceti produttivi e professionali (che nel sud non mancano affatto), escano dall' accattonaggio, cambino radicalmente prospettiva. Bisogna che le cosiddette “parti sociali” comincino a considerare controparte non più il “padrone”, ma quella parte di sindacato nazionale che siede ai tavoli delle trattative per decidere l' assegnazione di ingenti commesse produttive di lavoro, nel pubblico e nel privato. Bisogna che gli imprenditori meridionali comincino a considerare controparte non i lavoratori ma i propri “colleghi” dell' Italia del benessere e, innanzitutto, le loro banche. Il capitalismo finanziario e industriale italiano è ancora vetusto, alieno dal rispetto del mercato, monopolista sin che è possibile, instancabile creatore sommerso di cartelli, sostanzialmente erede delle logiche accentratrici dello stato fascista, che inglobava tutta l’ economia in un coacervo di interessi personalistici, spinto a ciò dalle sanzioni internazionali che produssero l’ autarchia: è negli anni trenta che nasce l’IRI.

Bisogna che i partiti politici considerino controparte non solo e non tutte le altre forze politiche, ma, a livello nazionale, quella parte loro interna che rappresenta interessi diversi e contrapposti alle prospettive di crescita del mezzogiorno: è necessario e urgente avviare il federalismo democratico, a cominciare dalla politica.

* * *

Il sistema di potere dei mafiosi potrà considerarsi superato quando in Calabria o nel sud un imprenditore, dal più modesto artigiano al più grosso industriale, potrà impiantare la propria attività produttiva sotto la convinta garanzia che i poteri pubblici devono prestargli, dalle infrastrutture all' ordine pubblico, e potrà depositare i suoi guadagni in una struttura di credito che non abbia come obbiettivo il drenaggio di capitali che fuoriescono dalla regione con la velocità dell' elettronica: ma su questo, purtroppo, nessuna lamentela, nessun auspicio, nessun impegno solenne appare nei grandi luoghi di decisione, nell' “opinione pubblica” nazionale, nella coscienza “democratica” delle forze politiche e delle stesse istituzioni.

Sembra ormai fatalmente accettato, anzi, che la scuola pubblica e la ricerca (che lavorano in condizioni difficilissime nel mezzogiorno) non debbano essere più un luogo di produzione di classe dirigente, anche sotto i colpi di maglio del leghismo trionfante in tutte le forze politiche. Nell’ ultimo piano di dimensionamento scolastico della Provincia di Reggio, poi modificato dalla Regione Calabria, le scuole materne, elementari e medie di Platì e S.Luca sono state fuse in un unico istituto, con un solo dirigente scolastico, in omaggio alla logica ragionieristica di una legge nazionale che tratta le capitali della disperazione al pari delle tranquille province padane. 

* * *

Con la disgregazione programmata, si spiega meglio il ruolo e la presenza del milione e mezzo di immigrati clandestini, ed il permanente atteggiamento che hanno assunto i mass media, la grande stampa, verso il sud.Il sud è mafioso, è incapace di autonomia: anche la Cassa di risparmio calabrese è stata prima integrata nella Cassa di Risparmio di Milano e in quella di Torino, poi nella megaconcentrazione di Banca Intesa. 

Ed i tassi di prestito nel sud sono alle stelle, per l’ovvio “rischio mafia”, anche se i patrimoni finanziari più grossi sono depositati in banca dai prestanome dei criminali. Il ruolo di vigilanza della Banca d’Italia si rivela inconsistente sino a che le banche meridionali accumulano “sofferenze”, e molto attento quando bisogna prendere atto che gli sportelli “ammalati” devono essere ceduti per un boccone alle banche del nord, magari dopo che hanno finanziato illegalmente alla grande le clientele politiche di turno.

Per il sud bisogna sempre decidere altrove, magari col sistema delle agenzie speciali, e dell' affidamento di lavori pubblici infrastrutturali alle grandi società di progettazione nazionali. 

La Calabria, in effetti, vista dall' esterno, non è molto di più di un' espressione geografica, un alibi per i grandi affari che vengono decisi fuori di essa, e che poi vengono calati nella regione scegliendo il personale politico, amministrativo, “militare” (come i mafiosi) che deve portarli a termine. Andrebbe approfondita una circostanza assai singolare: risulta che parecchi certificati antimafia di grandi opere pubbliche da realizzare in Calabria sono rilasciati a Roma. 

E in Calabria si uccide, nella consueta generale indifferenza dell' opinione pubblica nazionale, per conquistare un posto in prima fila: non esiste nessuna componente etnica o culturale in questa carneficina: se tanto spesso nel sud si ricorre all' omicidio, è perché in certi ambienti si è sicuri che il premio per la conquistata predominanza sul territorio, sugli affari, sulla direzione dell' economia, sullo sfruttamento di ingentissime risorse finanziarie di provenienza pubblica, è tanto alto da valere una vita. Insomma, se si uccide è perché si è sicuri che dietro l' angolo c' è in attesa il grosso appalto, la grande fornitura, c’è il politico locale o nazionale che attraverso una onnipotente casta di burocrati di alto livello (che restano, mentre ministri e assessori passano) è pronto a decorare sul campo il più forte sul piano militare. 

E’ inaccettabile l' approccio della grande stampa con la realtà meridionale, intriso di evidente malafede. “Vaste aree della Calabria -ha detto ancora un magistrato- sono in mano ad un invasore che ha imposto il suo potere e lascia ogni giorno tracce di devastazioni, incendi, omicidi, attentati: ma bisogna far finta che nulla sia accaduto. Si scambia l' emergenza dell' impegno civile (che manca) con l' emergenza militare, che qualche volta fa affluire uomini e mezzi e illude i cittadini. Lavoratori e gestori onesti di pubblici uffici sono avvertiti: non devono andare oltre una 'corretta' routine. Se la si oltrepassa, allora è la riprovazione, il 'ben ti sta, ti avevamo avvertito': è cosi che la mafia diventa sempre più potente…”.

Nel paragone che i giornalisti hanno fatto del Sud col Libano, c' è qualcosa che non funziona: mentre l' inviato che si recava in medioriente, pur di fronte alle stragi, alle storie di ordinaria crudeltà e violenza, ha sempre mostrato sentimenti di umana e commossa solidarietà per la popolazione, che sconta in modo bruciante sulla propria pelle una situazione che non ha scelto di vivere, quando si arriva in Calabria sembra quasi che il copione sia già predisposto (con grandissima professionalità, s' intende) e che manchino solo i nomi dei nuovi (o vecchi) protagonisti, tutti legati alla maledetta etnìa locale: “Gesù, fai morire tutti i terroni”, dice una bambina torinese in una lettera pubblicata sulla “Stampa”.

* * *

Certo, sul piano locale non sono tutte rose e fiori. Il collasso del sistema dell' istruzione pubblica, la corruzione della pubblica amministrazione, la gracilità delle autonomie locali, incapaci di progettare e di spendere e cogliere le opportunità dell’ UE, la debolezza di chi amministra di fronte all' aggressività vincente del sistema criminale sono cosa di tutti i giorni. Il personale delegato all' esecuzione dei grandi affari prospera e si tutela egregiamente. Ed è tanto abituato all' impunità (sia nelle guerre di mafia che in quelle di partito, che in quelle combattute nei corridoi degli uffici pubblici) che ormai è divenuto un elemento indipendente, assestante, autosufficiente, autopropulsivo, come un cancro che dilaga inarrestabile, a cui può porre freno soltanto la società civile, che malgrado tutto esiste, ed è maggioranza molto più di quanto non sappia essa stessa. 

Bisogna reclamare ed imporre che lo Stato, in tutti i suoi organi, centrali e periferici, faccia per intero il suo dovere. Si deve capire anche che lo Stato non è soltanto un astratto “ufficio” che sta in Calabria o a Roma, cui spettano tutti gli obblighi per garantire una ordinata convivenza: lo Stato è l' insieme dei comportamenti collettivi assunti di volta in volta dalle persone delegate a rappresentarne le funzioni, dalla più umile alla più complessa, dall' usciere all' onorevole. 

E non solo: Stato è anche qualunque cittadino che decide di attivarsi per far rispettare le regole, il contratto sociale, il metodo quotidiano della democrazia e della partecipazione. 

Si può dire che per molti versi il colonnello Gheddafi è un personaggio che ha assunto tesi discutibili. Ma sulle porte delle sue ambasciate c'è una frase (magari presa a prestito e rivenduta a buon mercato) che fa riflettere: “la democrazia non è dare la parola al popolo, ma dargli un ruolo”.

* * *

A chi tocca combattere i mafiosi? Prima allo Stato e poi alle realtà locali, prima alle popolazioni e poi ai ministeri che sarebbero spinti dalla passione civile? Si deve cominciare da Palermo o da Roma (o da Milano e Zurigo?). E a che servono le denunce coraggiose (ricordarsi di Rocco Gatto, assassinato dai mafiosi a Gioiosa Ionica, di Dionisio Crea, vicesindaco ucciso a Fiumara di Muro, del barone Cordopatri e di tanti altri) se poi ciò che chiamiamo “Stato” si mostra nolente? 

Non di rado esponenti più avveduti delle stesse forze dell' ordine (e della magistratura) mostrano di capire che la lotta fino in fondo ai mafiosi non paga, quando addirittura non si tramuta in una concreta minaccia per le loro vite o per le loro carriere. E ciò vale ancora di più a chi si batte concretamente per la società civile. Con loro, in trincea, sono rimasti (sempre più bersagliati nell' intento di precipitarli nell' isolamento) pochi intellettuali.

Una mobilitazione delle coscienze deve esigere che Stato e poteri locali facciano per intero il loro dovere. E si deve fare attenzione che queste coscienze di cui parliamo sempre non siano più corrotte dei corruttori, verifichiamo che le masse, inglobate e narcotizzate nel modello assistenzialismo - sottosviluppo, abbiano ancora una reale capacità di sdegnarsi, di mobilitarsi, di progettare una società fondata sul lavoro, la produttività, la competitività.

Mass media e predicatori di turno, oggi, di tanto in tanto mobilitano le masse per la pace nel mondo, la fame in India la lotta all' Aids. Ma è là dove i diseredati di questo paese vivono che non si vede la disperazione quotidiana di migliaia di disoccupati, impotenti di fronte al crescere delle rendite parassitarie. Ogni mattina a Reggio ci sono almeno 60.000 persone che si svegliano senza lavoro. Non protestano mai. Attendono la raccomandazione per avere prima il “pezzo di carta” senza studio, come premessa per avere il “posto” senza lavoro. Sono rassegnate, ma forse possono essere una grande risorsa, se si riattiva adeguatamente la fiducia in uno stato solidale e presente sui loro problemi. 

Intanto, nelle strategie di contrasto al fenomeno mafioso mancano del tutto strategie culturali di base. Non solo nella scuola, ma anche con la creazione di pubblicità istituzionale; la messa in evidenza delle strutture economiche messe sotto sequestro ai mafiosi; l’intensificazione delle indagini patrimoniali che a tutt’ oggi mostrano un limite serio nel fatto che il 70% di ciò che è sequestrato viene poi restituito, accrescendo enormemente il prestigio sociale dei criminali e la percezione nella collettività della loro oggettiva impunità.

L’impegno pubblico di 500 miliardi, varato nel 2000 col sostegno della Confindustria, per rendere nel sud più tecnologicamente sicure strade e autostrade e più avanzate le sale operative e i mezzi delle forze dell’ ordine, avrebbe potuto prevedere un minimo spazio per le strategie culturali. 

E’ inutile che si lancino accuse di omertà. Nessun cittadino che abbia deciso di collaborare con gli inquirenti è mai stato tutelato, e molto spesso è stato smentito dall’ apparato giudiziario, restando solo di fronte alle vendette mafiose. Lo Stato deve garantire, tutelare, sostenere, proteggere, incoraggiare, gratificare chi lotta contro i mafiosi, visto che alla radice del problema è esso stesso, che con la sua “neutralità” ha consegnato interi territori ad un potere, come quello mafioso, che non è “contro” ma “dentro”.

Home Mass Media


dlabate@unirc.it
© D. Labate - 2000