LE “RAGIONI” DELLA MAFIA
di Domenico Labate
* * *
Di
fronte ad un fenomeno come quello della criminalità associata,
che
ha come caratteristica la persistenza su base prevalentemente
familiare,
è necessario indagare con l’adozione di parametri che
fuoriescano
dall’ analisi socio-antropologica, o peggio “semplicemente”
criminologica.
Una valutazione approfondita del fenomeno, che ha assunto
caratteristiche
strutturali in Italia solo a partire dal secondo dopoguerra, non
può
fare a meno dello strumento principale dell’ analisi storica: il
fattore
economico.
Perché
la mafia è risultata così a lungo vincente? Dopo l'
assassinio,
nel 1983, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo,
questa domanda si è fatta strada in modo sempre più
inquietante,
di fronte alla prima pesante sfida alle istituzioni nazionali, che sino
ad allora erano state assai tiepide nel valutare il fenomeno (come in
Calabria)
o meglio molto attive nel non farlo recepire nella sua gravità
presso
l' opinione pubblica nazionale.
Per
una singolare ironia del destino, il generale era omonimo di un suo
collega,
piemontese, di nome Della Chiesa, che nel 1861 aveva lanciato da
Catanzaro
(probabilmente con maggior fortuna) questo proclama:
«Comando
Generale della Sedicesima Divisione Attiva / Proclama
Onde
aderire ai voti di molti fuorusciti, che ravvedendosi dell' errore
commesso
nel prendere le armi contro la patria libertà per sostenere
diritti
che il voto universale degl' Italiani ha per sempre aboliti; S.E. il
Comandante
Generale delle truppe stanziate
nelle
Province Meridionali, valendosi dei poteri confertigli, accorda piena
amnistia
a tutti coloro che da oggi in avanti si presenteranno alle
Autorità
costituite sia Civili che Militari, per ritornare in seno alle loro
famiglie.
Avranno
pure indulgenza coloro che trascinati nei movimenti reazionari da
semplici delitti comuni mostrassero col pentimento e col riprendere
i loro lavori che non saranno mai per ricadere in simili reati.
Nel
portare alla pubblica conoscenza le suddette determinazioni io mi
lusingo
che tutti quelli che vi possano avere interesse vorranno approfittarne
onde non incorrere in quel castigo severo ch' è riservato a
chiunque
tenti di ribellarsi ai voleri della Italiana Nazione. Dal quartier
Generale
in Catanzaro il 22 Luglio 1861. Il Comandante la Divisione: DELLA
CHIESA”.
Per
decodificare la strage di Palermo, in cui Dalla Chiesa fu trucidato con
la moglie, Emanuela Setti Carraro e i militari della scorta, si
tentò
di abbozzare delle risposte che coglievano solo il dato “locale” del
fenomeno:
«E'
chiaro che, nell' arco dei “poteri” reali che dominano la Sicilia
-aveva
detto un magistrato a Reggio Calabria- la mafia non tollerava
più,
ormai, di essere “soltanto” alla pari: doveva dare un segno della sua
forza,
formalizzare la sua sfida allo Stato. Allo stesso modo -aveva
proseguito-
se
in Calabria non ci sono stati finora delitti “eccellenti” è
perché
la compenetrazione della criminalità organizzata nelle pubbliche
istituzioni è stata tale da non renderli necessari».
Dopo
quattro anni, a Reggio, sarebbe stato assassinato il presidente delle
Ferrovie
dello Stato, Lodovico Ligato; dopo dieci sarebbe stata la volta del
sostituto
procuratore generale della Cassazione, Antonino Scopelliti. Il ‘cambio
di stile’ avvenuto con l' omicidio Dalla Chiesa doveva dare un segnale
evidente, spingere ad indagare sui rapporti tra mafia e politica.
Già
Leonardo Sciascia, con la sua acuta riflessione, aveva detto che “nel
Mezzogiorno molti politici non hanno né bisogno né paura
della mafia, ma sono un prodotto della mafia”.
* * *
La
mafia è da lungo tempo un consapevole strumento di “governo” del
territorio nel meridione. Questo porta a una riflessione sulla natura e
la qualità dei poteri del nostro Stato, per comprendere se
conserva
la sua connotazione costituzionale. I costituzionalisti hanno
individuato
infatti la nascita dello stato moderno in un elemento caratterizzante:
con il contratto sociale, il monopolio della violenza è
stato
sottratto ai singoli o gruppi per riservarlo allo Stato.
Se
dunque i mafiosi esercitano indisturbati (ed indisturbabili) un loro
monopolio della violenza ciò vuol dire o che per molto tempo
è
scomparso ciò che chiamiamo “Stato” o, piuttosto, che essi lo
rappresentano
in un qualche modo: un dato che tutti si affrettano ad esorcizzare ma
che
rimane in evidenza, ogni giorno. “A Reggio non esiste alcuna
attività
economica che non sia sotto il controllo della mafia” dichiara
ancora
nel 1995 un magistrato della procura distrettuale, vivacemente
contestato
da esponenti politici.
Lo
scivolamento nel modello balcanico della Calabria, situata in un punto
strategico del Mediterraneo, (ma si potrebbe richiamare la Colombia, o
la Bolivia) potrebbe essere coscientemente perseguito da grandi
organizzazioni
multinazionali del crimine, come dimostrano i traffici di armi,
emigranti
clandestini, droga, preziosi, narcodollari, il continuo ritrovamento in
varie parti della Calabria di piantagioni di cannabis indica.
La
criminalità mafiosa ha una carica eversiva di carattere
strettamente
politico. Non si traggono tutte le conseguenze dal fatto che in
Calabria
i mafiosi hanno un profondo controllo del territorio. E il territorio
non
è solo l' ultima risorsa rimasta al Sud, ma anche uno dei tre
elementi
che i costituzionalisti indicano come costitutivi di uno Stato.
Nella
commissione di vari delitti è necessario dotarsi di strumenti
che
li consentano: armi, mezzi di trasporto, coperture bancarie, e
così
via. Il delitto ‘principe’ della mafia calabrese per molti anni
è
stato il sequestro di persona. E lo ‘strumento di lavoro’ per compiere
il sequestro di persona è il territorio. Se non si
controllano
interi comprensori, con le case, gli abitanti, i lavoratori, le
attività
produttive, qualche pezzo delle istituzioni, il sequestro di persona
è
impossibile. Tutti in un paese devono sapere che c'è il
sequestrato
e tutti devono stare zitti, anche quando incrociano il
latitante
non troppo ricercato che sovrintende a tutte le attività
illegali.
Non
sono molti quelli che considerano il sequestro di persona come il reato
più “politico” che si può commettere: eppure il sequestro
Moro doveva insegnare qualcosa. Già tra il 1860 e i primi del
'900
il cosiddetto brigantaggio aveva a lungo posto in essere questo tipo di
reato, che poi è venuto alla ribalta mondiale col sequestro
della
nave 'Achille Lauro', con i dirottamenti aerei, coi rapimenti politici
che tutti sanno.
L'
effettuazione di un sequestro presuppone dunque il possesso di uno
'strumento
di lavoro' che si chiama territorio: una padronanza, un controllo, un
potere
che si pone in totale alternativa con l' esistenza dello Stato
costituzionale.
Coi
sequestri di persona, dunque, la mafia ha notificato alla
comunità
nazionale il suo essersi costituta come “stato”, e ha sfidato chiunque
a dimostrare il contrario. La storia criminale ha poi dimostrato che la
quasi totalità dei sequestrati, quando è stata liberata,
ha avuto la libertà per decisione dei mafiosi (non di rado con
trattative
sommerse con le forze dell’ ordine sotto la direzione di magistrati) e
quasi mai per un colpo di mano degli inquirenti.
* * *
Cerchiamo
di capire meglio perché nel Sud alcuni suoi abitanti non si
trasformano
in cittadini: ciò dipende da come è nato lo Stato
unitario.
In Italia come in Europa, il Risorgimento è stato una
“rivoluzione
borghese”. Una prospera borghesia nel nord, non tollerando più
che
tra Torino e Palermo ci fossero cinque dogane, non accettando
più
che il suo potere economico non avesse un corrispettivo politico nell'
ambito e sul modello dei più consolidati stati costituzionali
europei,
lancia la parola d' ordine dell' Unità nazionale.
I
cafoni meridionali rispondono. Eppure non avevano, come invece nel
Lombardo-Veneto,
stranieri da scacciare, né aspiravano a modifiche costituzionali
di cui non erano ancora coscienti: accolgono Garibaldi perché si
aspettano di ribaltare i rapporti di classe, nelle campagne,
contro
i baroni, il notabilato borbonico, i privilegi degli ecclesiastici.
Compiuta
la “liberazione”, però, l' intelligente tessitore Cavour si fece
consegnare da Garibaldi i territori del Sud per darli allo stato
piemontese.
E quando Garibaldi obbiettò che l' unità non è
compiuta
senza lo stato pontificio, venne rapidamente messo fuori legge.
Lo
Stato unitario nasce quindi dall' alleanza della borghesia
imprenditoriale
del nord coi “galantuomini” del sud. “Bisogna che tutto cambi
perché
nulla cambi”
è l' ormai celebre citazione del nostro contemporaneo
Tomasi di Lampedusa: con l' unificazione nazionale, per il sud cambiano
solo i padroni.
Se
cerchiamo di esaminare quale era la composizione del padronato nel sud,
vediamo che non mancavano imprese industriali come le filande, poi
distrutte
dalla “crisi” venuta con l' unità e la 'tariffa' fiscale
piemontese,
nella 'piccola Manchester' di Villa San Giovanni. Ma in un' economia
che
restava essenzialmente agricola, alla quale programmaticamente il nuovo
stato unitario negò un ruolo di crescita industriale, padroni
restavano
i grandi proprietari terrieri, e i grandi mediatori della borghesia di
stato, che con l' unificazione disposero a loro piacimento degli
immobili
demaniali, delle terre confiscate alla Chiesa e ai vecchi padroni
borbonici.
Avviato
il processo unitario, i contadini tentarono debolmente di inserirsi nel
meccanismo di cambiamento, di strappare il sogno di secoli, la terra,
ma
si trovarono ricacciati indietro. Tentano qualche ribellione, ma, come
già Nino Bixio aveva mostrato con decisione a Bronte, quando non
interviene l' esercito regio, ora si trovano di fronte i “mazzieri”, al
servizio dei nuovi padroni galantuomini, che hanno soppiantato la casta
nobiliare borbonica. I mazzieri, antenati dei mafiosi, avevano campo
libero
per reprimere con la violenza ogni forma di dissenso, individuale o
organizzato.
Se erano tanto spavaldi, però, non lo dovevano soltanto ai
padroni
che li stipendiavano, ma anche allo Stato, che garantiva l'
impunità
per
la loro violenza.
Per
nessuno, in uno stato di diritto, può esistere, allora come
oggi,
la possibilità di riappropriarsi del monopolio della forza, (non
a lungo), se non con il consenso, nei fatti, di chi lo dovrebbe
reprimere:
la debolezza e l’acquiescenza prolungate per decenni sono in
realtà
un consenso, una complicità.
Anche
i fascisti, negli anni ‘20, poterono, pressoché indisturbati,
devastare
sedi sindacali, assassinare ed intimidire dirigenti politici,
conquistare
di fatto il potere: non perché la classe operaia e contadina
fosse
più debole o poco capace di reagire alle violenze, ma
perché,
quando le squadre dei fascisti uscivano, i carabinieri avevano l'
ordine
di restare in caserma.
Quando
gli operai reagivano, le forze dell' ordine intervenivano per soffocare
la loro protesta; e quando si recavano a chiedere giustizia trovavano
giudici
molto sensibili alla “ragion di stato” del padronato. E non è
mai
accaduto che qualche giudice si schierasse dalla parte del più
debole.
Il più debole è rimasto a guardare per più di un
secolo
il prepotente affermarsi con il silenzio dello stato, ed ha tratto le
sue
conclusioni. In fondo, per la gente che riusciva a restare onesta, lo
stato
aveva solo la faccia della coscrizione obbligatoria e della famigerata
tassa sul macinato: scegliere tra mafia e stato non era (e non
è)
difficile, dato che in fondo la prima è percepita come un altro
aspetto del secondo.
Nel
ventennio fascista (qualcuno pretende che i mafiosi fossero scomparsi),
i mazzieri divennero “organici” del regime, anch' esso nato per
rafforzare
l' alleanza tra borghesi e galantuomini, un' alleanza che la grande kermesse
popolare della guerra mondiale aveva tentato di rimettere in
discussione,
sull' onda dell' esempio russo, tra il 1919 ed il '21.
I
fascisti dunque trionfarono non tanto per l' uso spregiudicato della
forza,
quanto per la sottoscritta garanzia della loro impunità: allora
come oggi, di fatto, la logica di sopravvivenza dei mafiosi impuniti
(che
appaiono come una minoranza protetta) è stata uguale: l'
impunità
è oggettivamente fondata sulla voluta inefficienza degli
apparati
preposti alla repressione.
* * *
Anche
oggi non sono pochi gli “organici” mafiosi all' interno delle strutture
pubbliche. E alla carica eversiva della mafia a lungo non si è
risposto.
Altro atteggiamento si è tenuto per il terrorismo degli anni
'70/'80.
L' eversione politica ha realmente minacciato l' establishment
erede dell' alleanza borghesi - galantuomini, rischiando di condurre ad
un' involuzione, a causa delle leggi autoritarie e non garantiste che
sembrava
necessitare.
Il
terrorismo minacciava i rapporti tra classe operaia (una delle
varie
classi che vi sono oggi nelle società industriali) ed
imprenditori,
metteva in discussione i diritti sindacali, per la criminalizzazione
indifferenziata
che si tentò di imporre a tutto ciò che rappresentasse le
esigenze popolari, come insegna la gestione della strage di Piazza
Fontana
e di quelle che sono seguite.
Al
terrorismo, alla fine, ha risposto il tessuto economico, e
conseguenzialmente
democratico, del Paese più sviluppato (e più minacciato),
fino alla sua sconfitta. In quel tessuto si è saldata l'
alleanza
del ‘patto tra produttori’: classe operaia e imprenditori, che
caratterizza
la storia del Paese nei decenni di fine secolo. Il terrorismo è
stato sconfitto prima nelle coscienze che nelle prigioni. E’ stato
definitivamente
messo fuori causa dall' attacco “militare” che lo stesso generale Dalla
Chiesa portò al mondo dell’ infantilismo rivoluzionario ed agli
ambienti sociali o culturali che fiancheggiavano il fenomeno.
Per
quella lotta, che ha coinvolto alla fine larghe fasce popolari (ad
eccezione
dei “non garantiti”) hanno pagato un prezzo durissimo le categorie
più
esposte: alcuni magistrati, politici, giornalisti, sindacalisti. Ma non
è fortunato un paese che ha bisogno di eroi come Falcone e
Borsellino:
al terrorismo dei mafiosi non si è risposto come a quello degli
anni di piombo: eppure è identica la carica di eversione
politica.
Va
sottolineato che molti magistrati del sud sono andati a fare il loro
dovere
contro il terrorismo senza attendere (e senza ricevere) particolari
gratificazioni.
Oggi in Calabria e nel meridione continua a mancare negli organici, su
posti già disponibili, quasi un terzo dei magistrati, e le nuove
assegnazioni sono sempre di là da venire. Pochi magistrati
vengono
volentieri in questa regione, al punto che si sono studiati e
legittimati
meccanismi che incentivano carriera e stipendio per i magistrati
'disposti'
a trasferirsi al sud, mentre la normativa sulle assegnazioni d' ufficio
rimane nebulosa.
Seguendo
la logica degli incentivi ai magistrati, si crea un precedente, sul
piano
dei diritti costituzionali delle popolazioni, a dir poco pericoloso, se
non razzista: uno stato democratico e moderno ha l' obbligo di
garantire
l' esercizio della giurisdizione in ogni parte del suo territorio. E d'
altra parte ci sarebbe la possibilità legittima che anche
insegnanti,
tutori dell' ordine, medici, e magari anche netturbini reclamino
giustamente
aumenti di stipendio e la pensione a 50 anni, per accettare di andare a
lavorare in terra di mafia, perché non sono affatto meno in
pericolo
degli inquirenti.
* * *
La
prima democrazia che si costruisce sul territorio è quella dei
rapporti
economici, perché essi rappresentano il primo livello dell'
istinto
di conservazione e di sopravvivenza. Quando cresce l' economia, attorno
alle fonti produttive si aggregano gli interessi di tutela degli
strumenti
di benessere e di lavoro, di crescita ordinata, con il sostegno
convinto
e vigile della popolazione di cui i lavoratori occupati sono parte
essenziale.
Ma
se una crescita economica è negata, anche la democrazia
(cioè
un criterio di governo del territorio affidato all' iniziativa ed al
consenso
dei cittadini) è negata in toto.
La
mafia si è configurata sempre più, dunque, come una
scelta
di gestione del territorio voluta dal paese reale, figlio di
quell'
unificazione, che ha potuto forse considerare il fascismo un episodio,
ma che mantiene inalterati i rapporti di forza di quell' alleanza. Il
paese
legale (le istituzioni) rispecchia ancora questi interessi,
fondati
su un' organizzazione dell' economia che deve vedere il
meridione
sempre perdente, per ovvî motivi di alternatività nello
sviluppo
economico tra nord e sud, in una situazione internazionale
caratterizzata
da una sempre maggiore difficoltà nel mantenere una
concorrenzialità
dell' Italia su mercati vieppiù difficili da penetrare.
Ancora
oggi, il meridione non deve produrre, deve solo fornire braccia per
calmierare
il mercato del lavoro (sino a che la drammatica emigrazione
extracomunitaria
non renderà superflui anche loro), deve fornire territorio per
gli
insediamenti industriali pericolosi e inquinanti (come si voleva a
Gioia
Tauro), intelligenze per dirigere i servizi avanzati. Il Sud deve solo
consumare, spendendo i soldi che l' assistenzialismo di Stato riesce a
scremare con l' imposizione fiscale mirata sopratutto sul lavoro
dipendente,
presso chi lavora e produce o, meglio, è ammesso a questi
diritti.
* * *
A
fronte di un Mezzogiorno in cui, a milioni, donne, giovani, diplomati e
laureati sono disoccupati senza prospettiva alcuna, faccia riflettere
(fatti
salvi i giusti principî antirazzisti che devono ispirare la
convivenza
nel nostro paese) la presenza in Italia di quasi un milione e mezzo di
immigrati in gran parte clandestini: sono i nuovi meridionali che
accettano
qualsiasi lavoro, qualsiasi salario, che contribuiscono loro malgrado a
privare di significato decenni di lotte e di conquiste sindacali. E non
a caso sono gli strumenti di penetrazione dell' economia mafiosa,
clandestina,
del “sommerso” che produce e vende merci per almeno 50.000 miliardi l'
anno senza pagare tasse o contributi previdenziali.
E'
del tutto incredibile che sul mercato del lavoro in Italia (e dei
bisogni
di accudirvi in termini di servizi) si sia improvvisamente scaricata
una
intera, nuova nazione, senza che nessuno degli addetti ai lavori si sia
accorto di ciò che accadeva.
E’
sempre stata una costante illusione di un certo ceto imprenditoriale il
voler ridurre al minimo il costo del lavoro aumentando la massa dei
disoccupati
(in questo caso dei disperati) disponibili. Ma ci si nasconde poi che i
costi sociali (servizi, sanità, scuola, ordine pubblico)
diventano
alla lunga insostenibili, per quanto si tenti di lasciarli sommersi,
almeno
fino a che lo stesso standard di qualità della vita non
sarà
garantito ai residenti in tutte le aree del paese.
* * *
Ogni
territorio, quindi, ha la sua economia, prima, e poi, di conseguenza,
la
criminalità che corrisponde a questa economia: al sud,
pertanto,
spettavano e spettano i mafiosi, sino a che i rapporti di sviluppo
economico
tra le varie aree del paese non saranno modificati.
Il
paese reale, che è quello rappresentato nel Parlamento, ma pure
quello dell' imprenditoria, quello del sindacato (in cui troppa parte
ha
assunto l' influenza dei partiti politici), quello dell' economia
sommersa,
quello delle vecchie e nuove P2, dei grand commis di Stato e
delle
Regioni, delle lobbies dentro e fuori di quello che era il
sistema
delle partecipazioni statali, della massoneria “pulita”, dei quadri
tecnocratici,
dell' alta burocrazia, del sistema creditizio (che rappresenta insieme
privilegi e arroganza nel drenare le risorse al sud), quello delle
grandi
aggregazioni produttive e di quelle parassitarie, mantiene immutati i
termini
del contratto post-unitario anche attraverso il sistema mafioso.
Un
pò dappertutto ci troviamo di fronte a 'prenditori' e non
imprenditori,
a moneta cattiva che scaccia quella buona: nessun imprenditore sano
può
competere con l’economia mafiosa che dispone di migliaia di miliardi a
tasso zero.
Bisogna
domandarsi nitidamente qual è, se c’è, il ruolo della
grande
imprenditoria e finanza nazionale ed internazionale di fronte allo
strapotere
di fatto dei mafiosi nelle attività economiche.
Non
si capisce, ad esempio, perché la Fiat (come risulta dagli atti
del processo ‘“De Stefano+59” a Reggio Calabria, (che ha visto insieme,
alla fine degli anni '70, le maggiori cosche mafiose reggine nell'
aggiudicazione
dei subappalti per la realizzazione dell' area e del porto industriale
di Gioia Tauro), ha venduto sulla semplice parola ad un oscuro
insegnante
di scuola media quale prestanome macchine per movimento terra per quasi
due miliardi (prezzi del 1977). E anche recenti processi per le
infiltrazioni
mafiose nella gestione del porto hanno mantenuto il consueto copione
secondo
cui l’imprenditore (questa volta del nord) è sempre “vittima” e
mai complice dei mafiosi.
Non
si capisce perché, già nel 1983, mentre i mafiosi
minacciavano
tutti i consiglieri comunali dell' appena costituito comune di San
Ferdinando
di Rosarno, affinché non andassero in aula a votare contro la
centrale
termoelettrica che si voleva installare nell' area industriale di Gioia
Tauro, su tutta la grande stampa, d'informazione ed economica, si
gridava
che la centrale era vitale per salvare le industrie elettromeccaniche
del
nord, che avrebbero versato sull' orlo del fallimento.
Non
si capisce perché concessionarie di autoveicoli ed agenzie d'
assicurazione
sono ormai “assicurate” ai notabili della mafia, come confermano
corposi
sequestri di beni mafiosi effettuati in base alla legge Rognoni-La
Torre.
Qual
è il ruolo nella lotta alla mafa della grande industria, della
grande
finanza? E perché mai i sequestri e le confische patrimoniali
sono
ilrisultato di indagini che si fermano
sempre in loco? Forse che non si osserva che grandi produttori
e
importatori nazionali ed internazionali, assicuratori e banchieri non
aspettano
altro che di trattare col nuovo “vincente” per affidare loro la propria
rappresentanza? Come mai quando si pongono sotto sequestro
concessionarie
mafiose i produttori non revocano loro i propri marchi? E se sono di
fatto
complici, perché non vengono mai indagati, se sono loro i
percettori
finali dei guadagni mafiosi? Forse non bisogna disturbare le pacifiche
ed oneste categorie imprenditoriali e lavoratrici nelle aree forti del
Paese e d’ Europa?
Si
capisce quindi perché a Gioia Tauro lo Stato ha speso (ed ha
fatto
il suo dovere) centinaia di miliardi per realizzare il più
grande
porto del Mediterraneo, che è entrato in funzione solo dopo la
sua
cessione a imprenditori del nord Italia, prima, e ora del nord Europa.
C'è a lato un' area industriale di 477 ettari, dove però
nessuna industria si consente di realizzare, e quasi sempre con l'
alibi
della presenza mafiosa.
Bisogna
sgombrare gli equivoci: i soldi spesi in Calabria dall' intervento
pubblico
sono andati ai mafiosi? Forse, anzi quasi certamente, e non solo a
loro.
Ma servono per comprare betoniere, ruspe, tondino, cemento, computers,
pellicce, auto di lusso, gadgets che fanno status.; oppure
sono
stati investiti nella Borsa, depositati nelle numerosissime filiali
delle
banche settentrionali operanti al sud. E' più giusto
dire
che i soldi che lo Stato ha speso e spende nel sud ritornano
immediatamente
nelle aree forti del Paese e d’Europa, sotto forma di denaro fresco,
commesse
per le fabbriche, posti di lavoro per il triangolo industriale.
Bisogna
smetterla di parlare della mafia, e cominciare a parlare dei mafiosi, e
dovunque si trovino. Ci sono più informazioni sulle guerre di
mafia
nella provincia di Reggio Calabria a Pisa, dove risiede una
mega-impresa
edilizia che ha trasformato per 25 anni la provincia reggina in un
cantiere
permanente, che non in tutto l' Aspromonte.
E
dal momento che non è vero che contano giornali e giornalisti,
ma
editori e direttori, la grande informazione nazionale continua a
sottacere
fatti assai gravi per mantenere inalterato il flusso
affaristico-finanziario
verso nord.
Un
esempio macroscopico riguarda i 200 miliardi già spesi in
Aspromonte
per una diga: un invaso di 18 milioni di metri cubi realizzato all’
interno
di un parco nazionale “protetto”! E ci si appresta a spendere altri 150
miliardi per un’opera che servirebbe pochissimo a restituire al
comprensorio
reggino l’acqua. Essa oggi viene dispersa in condutture vetuste, o
rubata
da agricoltori protetti dai mafiosi. Di certo, se la comunità
nazionale
fosse stata a conoscenza che nel 1979 la Electroconsult di Milano si
è
preoccupata con uno studio, (prontamente finanziato dalla Cassa per il
Mezzogiorno) dei fabbisogni d’acqua nel reggino proiettati al 2025, e
che
la cosa poteva costare così cara, qualcuno avrebbe potuto fare
delle
obiezioni. Se si fosse saputo che c’era una torta da 350 miliardi da
spendere
in Aspromonte, di certo ci sarebbe stato di che far nascere una piccola
Svizzera, col turismo legato all’agricoltura, alla viabilità, al
recupero antropologico della memoria storica: invece no, solo cemento e
calcestruzzo per 18 milioni di metri cubi d’acqua che incombono sulla
frana
detta del “Colella”, con buona pace dell’ ambientalismo locale e
nazionale.Lavori
eseguiti, regolarmente, da imprenditori mafiosi.
* * *
Bisogna
capire, allora, all' interno delle forze sociali e politiche,
meridionali
e nazionali, che le linee di lotta alla mafia e per il progresso civile
ed economico del mezzogiorno sono trasversali, e non seguono più
contorni ideologici ma geografici.
E,
infatti, cosa voleva dire negli anni '50, la parola d' ordine del
“mezzogiorno
all' opposizione”? Che si era compreso che non c'è più
unanimità
nei partiti (eccetto che per un certo ‘monolitismo’, di moda fino agli
anni '80), nei sindacati, nelle istituzioni nazionali, in tema di
riscatto
economico e lotta ai mafiosi, perché gli interessi divergono in
termini geografici: su questo punto, il paese reale, le
istituzioni
democratiche, dovranno fare chiarezza sopratutto al proprio interno se
si vuole affrontare seriamente il tema della lotta alla
criminalità
organizzata senza enfasi autoreferenziali.
E'
necessario riaffermare con forza che la libertà e la democrazia
non sono divisibili. Non si può essere liberi a Milano ed
oppressi
dai mafiosi a Reggio Calabria e dire che l' Italia è un paese
libero,
perché non è vero. Bisogna porsi seriamente il problema
del
ripristino delle garanzie costituzionali (prima tra tutte la
libertà
di intrapresa economica) in Calabria e nel Mezzogiorno, o si va ad una
sottovalutazione del potenziale eversivo ed anticostituzionale della
mafia
che ormai è contigua alla complicità.
Se
(per fare un elenco molto incompleto) con Carnevale, Mattarella,
Terranova,
La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Juliano, De Mauro, Fava, Francese,
Siani,
e, perché no, Ferlaino e Ligato, nel sud è stata falciata
col piombo una parte significativa della classe dirigente italiana,
bisogna riflettere, ricordando che la storica impunità per
questi
delitti è la controprova che per ogni delitto eccellente
c’è
un mandante eccellente.
Il
modello colombiano è passato in Italia (non a Palermo, o a
Napoli,
o a Reggio, ma in Italia) ed i fatti lo hanno dimostrato ancor prima
delle
stragi con le autobombe: oggi si è entrati, sopratutto in
Calabria,
in una nuova fase, quella del modello colombiano - balcanico, e non
solo
per le evidenti saldature della mafia d’oltre Adriatico con quella
nostrana.
In
Calabria viene ancora ogni giorno di più falciata la
Costituzione:
è un grave allarme, che deve riguardare tutto il paese.
Sorge
più che mai acuta la consapevolezza che il problema del
Mezzogiorno
riguarda tutta la nazione, perché il sud è
rimasto
a lungo (e per colpe e scelte che nascono fuori di esso) una sempre
più
inquietante palla al piede della crescita democratica (od “europea”, se
si preferisce) dell' Italia, che rimane, nonostante tutto, tra i primi
paesi industriali del mondo.
Nessun
potere in Italia, reale o legale, nessuna lobby, nessun gruppo
manageriale
potrà mai pensare di andare avanti, al passo con le altre
nazioni
progredite, se non si sceglie di abbandonare logiche e strumenti del
potere
mafioso: ha cominciato ad accorgersene chi parla con preoccupazione
della
“linea della palma” paragonandola alla crescita dell' influenza
mafiosa.
Si dice, infatti, che quest' albero tropicale ogni anno riesce a
spostare
verso nord di un metro il proprio habitat: e la risposta a questo
timore
è evidente nel profondo rigurgito di razzismo antimeridionale
che
ha legato vecchi complessi di colpa e nuovo benessere.
* * *
La
Calabria ed il mezzogiorno, come sappiamo, non si trovano più
all'
interno di un contesto economico chiuso, regionale, o nazionale. Da
molto
tempo questa regione deve misurare i suoi eventuali spazi di crescita
con
l' esistenza dei vincoli determinati dalla Unione Europea.
La
logica che ha presieduto alla nascita dell' UE è stata di
evitare
che tutti i paesi che ne fanno parte immettano sui mercati interni (in
agricoltura, e nell' industria) più di quanto possano assorbire,
e che si producano troppe merci dello stesso tipo nei vari paesi
membri.
Questo dovrebbe evitare cadute dei prezzi, guerre doganali,
licenziamenti
in settori che la concorrenza internazionale rende precari. Di anno in
anno, i ministri degli esteri dei 15 si riuniscono per decidere insieme
quanto latte, o quanto acciaio (o altri tipi di merce) produrre
complessivamente,
ed in che misura per ciascun paese.
E'
chiaro che l' Italia non ha smesso di produrre acciaio, ma se ne vede
assegnata
una quota parte; non ha smesso di produrre latticini, carne, zucchero,
ma è ammessa a immetterne sul mercato solo una certa
quantità
ogni anno. Se un prodotto agricolo vede cadere i prezzi, l' UE
interviene
rimborsando ai produttori una percentuale del mancato guadagno (le
integrazioni)
e se qualche paese produce in eccesso, violando le quote comunitarie
assegnate,
si vede multato. Per impedire che si produca in eccesso, però,
l'
Unione ha preso l' abitudine di pagare i produttori perché
distruggano
le colture o gli allevamenti: la chiamano incentivazione. Si monetizza
con valuta spesso precaria la sistematica distruzione di risorse
produttive
nelle realtà più deboli sotto il profilo culturale,
economico
e politico.
All'
interno di ogni stato, pur non cessando una produzione, viene deciso,
in
sede puramente politica e non di contrattazione economica tra le
regioni,
chi
ha diritto a produrre e dove, e si premia chi più ha.
E’ pur vero che in Italia un referendum ha abolito il ministero dell’
agricoltura,
secondo la “ovvia” logica che le quote di produzione dovessero nascere
da un accordo paritario tra regioni ed Unione: ma la posta in gioco era
troppo alta per ché si avesse rispetto degli strumenti di
democrazia
diretta. Chiuso il famigerato ministero dell’ agricoltura, si è
abusivamente istituito il ministero delle risorse agricole a tutela
delle
aree forti, ed il gioco è fatto.
E'
sotto gli occhi di tutti che la Calabria (e gran parte del mezzogiorno)
non produce affatto, e non perché non abbia le competenze o la
capacità,
ma perché la sua storica debolezza politica rispetto alle aree
forti
del paese ha impedito che conquistasse una sua quota parte di
produzione
sui contingenti assegnati all' Italia, almeno rispetto al mercato
europeo:
i mafiosi fanno da garanti di questo modello di non-produzione. Ed
è
significativa, sull' altro versante, la violenta protesta degli
iperproduttori
agricoli delle aree forti che si rifiutano, occupando autostrade e
aeroporti,
di pagare le multe comunitarie.
Nel
sud le campagne si sono svuotate, la plebe urbana dei disoccupati e
sottoccupati
si è ingrossata (e così la manovalanza mafiosa) sono
scomparsi
i braccianti e con loro il sindacato contadino. Nella regione è
tutta una sinfonia di integrazioni ed incentivazioni, che rapidamente
sono
finite, nell' indifferenza generale, in mano ai mafiosi.
Di
fronte al dilagare dell’ economia mafiosa si è verificato quello
che negli anni ‘80 sembrava solo uno slogan, e cioè che il paese
che conta è finalmente riuscito a trasformare la questione
meridionale,
ormai abbandonata, in mera questione criminale.
La
Calabria sarebbe ormai incapace di produrre da sé classe
dirigente
non inquinata, e quindi le si sottrae la sua rappresentanza nativa, per
sostituirla magari con esponenti di altre parti del paese, come
dimostra
la pletora di presenze “esterne” nelle competizioni politiche, spesso
incentrate,
come per la candidatura emblematica della madre di un sequestrato,
sulla
creazione di una rappresentanza parlamentare dedicata esclusivamente al
tema della repressione del crimine. L’elezione di un alto magistrato
calabrese
a presidente della regione non si sottrae a questa logica, così
come quella del suo competitore, un intellettuale di alto profilo
assente
dalla Calabria da trent’anni.
* * *
Nel
1992/93 qualche spiraglio sembrava aprirsi con la nascita del mercato
unico
europeo, che ha trovato la situazione dell' “economia” meridionale in
una
condizione interessantee contraddittoria.
Da una parte, la storica discriminazione produttiva. Dall' altra, due
fenomeni
concomitanti che potevano spingere al sud grandi risorse.
Il
primo fenomeno è che la megalopoli che ormai lega Torino, Genova
e Venezia è arrivata al collasso per l' enorme concentrazione di
attività industriali ed agricole che vi si è insediata:
c'
è l' allarme per l' aria (il che non è poco); nella
pianura
padana gli scarichi industriali inquinano fiumi, intaccano le falde
dell'
acqua potabile; l' Adriatico è in crisi, e così via.
Questo
condurrà nei prossimi anni ad una rinnovata aggressività
del triangolo industriale per “beneficare” il territorio meridionale
con
industrie, le prime delle quali sono naturalmente le più
inquinanti,
come ha attestato il tentativo della centrale termoelettrica di Gioia
Tauro,
non costruita per la tenace resistenza della popolazione.
Il
secondo elemento è che l' apertura delle frontiere in Europa
consente
al' UE, presa nel suo insieme, di produrre beni e servizi in misura
maggiore
rispetto alla somma del potenziale dei singoli stati membri, come ha
enfaticamente
annunciato a Reggio l' allora presidente della Confindustria,
Pininfarina.
Se il sistema economico (imprenditoriale e finanziario) italiano
vorrà
restare alla pari con i partners europei, allora, dovrà mettersi
in grado di aumentare il prodotto interno lordo. Qui ritorna in gioco
il
ruolo del Mezzogiorno, come area naturale di una espansione non
rinunciabile
del sistema produttivo del paese.
Se
si vuole uscire oggi dall' economia precaria che il sistema mafioso
mantiene,
bisogna che parti sociali, politiche, imprenditoriali, ceti produttivi
e professionali (che nel sud non mancano affatto), escano dall'
accattonaggio,
cambino radicalmente prospettiva. Bisogna che le cosiddette “parti
sociali”
comincino a considerare controparte non più il “padrone”, ma
quella
parte di sindacato nazionale che siede ai tavoli delle trattative per
decidere
l' assegnazione di ingenti commesse produttive di lavoro, nel pubblico
e nel privato. Bisogna che gli imprenditori meridionali comincino a
considerare
controparte non i lavoratori ma i propri “colleghi” dell' Italia del
benessere
e, innanzitutto, le loro banche. Il capitalismo finanziario e
industriale
italiano è ancora vetusto, alieno dal rispetto del mercato,
monopolista
sin che è possibile, instancabile creatore sommerso di cartelli,
sostanzialmente erede delle logiche accentratrici dello stato fascista,
che inglobava tutta l’ economia in un coacervo di interessi
personalistici,
spinto a ciò dalle sanzioni internazionali che produssero l’
autarchia:
è negli anni trenta che nasce l’IRI.
Bisogna
che i partiti politici considerino controparte non solo e non tutte le
altre forze politiche, ma, a livello nazionale, quella parte loro
interna
che rappresenta interessi diversi e contrapposti alle prospettive di
crescita
del mezzogiorno: è necessario e urgente avviare il federalismo
democratico,
a cominciare dalla politica.
* * *
Il
sistema di potere dei mafiosi potrà considerarsi superato quando
in Calabria o nel sud un imprenditore, dal più modesto artigiano
al più grosso industriale, potrà impiantare la propria
attività
produttiva sotto la convinta garanzia che i poteri pubblici devono
prestargli,
dalle infrastrutture all' ordine pubblico, e potrà depositare i
suoi guadagni in una struttura di credito che non abbia come obbiettivo
il drenaggio di capitali che fuoriescono dalla regione con la
velocità
dell' elettronica: ma su questo, purtroppo, nessuna lamentela, nessun
auspicio,
nessun impegno solenne appare nei grandi luoghi di decisione, nell'
“opinione
pubblica” nazionale, nella coscienza “democratica” delle forze
politiche
e delle stesse istituzioni.
Sembra
ormai fatalmente accettato, anzi, che la scuola pubblica e la ricerca
(che
lavorano in condizioni difficilissime nel mezzogiorno) non debbano
essere
più un luogo di produzione di classe dirigente, anche sotto i
colpi
di maglio del leghismo trionfante in tutte le forze politiche. Nell’
ultimo
piano di dimensionamento scolastico della Provincia di Reggio, poi
modificato
dalla Regione Calabria, le scuole materne, elementari e medie di
Platì
e S.Luca sono state fuse in un unico istituto, con un solo dirigente
scolastico,
in omaggio alla logica ragionieristica di una legge nazionale che
tratta
le capitali della disperazione al pari delle tranquille province
padane.
* * *
Con
la disgregazione programmata, si spiega meglio il ruolo e la presenza
del
milione e mezzo di immigrati clandestini, ed il permanente
atteggiamento
che hanno assunto i mass media, la grande stampa, verso il sud.Il
sud è mafioso, è incapace di autonomia: anche la Cassa di
risparmio calabrese è stata prima integrata nella Cassa di
Risparmio
di Milano e in quella di Torino, poi nella megaconcentrazione di Banca
Intesa.
Ed
i tassi di prestito nel sud sono alle stelle, per l’ovvio “rischio
mafia”,
anche se i patrimoni finanziari più grossi sono depositati in
banca
dai prestanome dei criminali. Il ruolo di vigilanza della Banca
d’Italia
si rivela inconsistente sino a che le banche meridionali accumulano
“sofferenze”,
e molto attento quando bisogna prendere atto che gli sportelli
“ammalati”
devono essere ceduti per un boccone alle banche del nord, magari dopo
che
hanno finanziato illegalmente alla grande le clientele politiche di
turno.
Per
il sud bisogna sempre decidere altrove, magari col sistema delle
agenzie
speciali, e dell' affidamento di lavori pubblici infrastrutturali alle
grandi società di progettazione nazionali.
La
Calabria, in effetti, vista dall' esterno, non è molto di
più
di un' espressione geografica, un alibi per i grandi affari che vengono
decisi fuori di essa, e che poi vengono calati nella regione scegliendo
il personale politico, amministrativo, “militare” (come i mafiosi) che
deve portarli a termine. Andrebbe approfondita una circostanza assai
singolare:
risulta che parecchi certificati antimafia di grandi opere pubbliche da
realizzare in Calabria sono rilasciati a Roma.
E
in Calabria si uccide, nella consueta generale indifferenza dell'
opinione
pubblica nazionale, per conquistare un posto in prima fila: non esiste
nessuna componente etnica o culturale in questa carneficina: se tanto
spesso
nel sud si ricorre all' omicidio, è perché in certi
ambienti
si è sicuri che il premio per la conquistata predominanza sul
territorio,
sugli affari, sulla direzione dell' economia, sullo sfruttamento di
ingentissime
risorse finanziarie di provenienza pubblica, è tanto alto da
valere
una vita. Insomma, se si uccide è perché si è
sicuri
che dietro l' angolo c' è in attesa il grosso appalto, la grande
fornitura, c’è il politico locale o nazionale che attraverso una
onnipotente casta di burocrati di alto livello (che restano, mentre
ministri
e assessori passano) è pronto a decorare sul campo il più
forte sul piano militare.
E’
inaccettabile l' approccio della grande stampa con la realtà
meridionale,
intriso di evidente malafede. “Vaste aree della Calabria -ha
detto
ancora un magistrato- sono in mano ad un invasore che ha imposto il
suo potere e lascia ogni giorno tracce di devastazioni, incendi,
omicidi,
attentati: ma bisogna far finta che nulla sia accaduto. Si scambia l'
emergenza
dell' impegno civile (che manca) con l' emergenza militare, che qualche
volta fa affluire uomini e mezzi e illude i cittadini. Lavoratori e
gestori
onesti di pubblici uffici sono avvertiti: non devono andare oltre una
'corretta'
routine. Se la si oltrepassa, allora è la riprovazione, il 'ben
ti sta, ti avevamo avvertito': è cosi che la mafia diventa
sempre
più potente…”.
Nel
paragone che i giornalisti hanno fatto del Sud col Libano, c' è
qualcosa che non funziona: mentre l' inviato che si recava in
medioriente,
pur di fronte alle stragi, alle storie di ordinaria crudeltà e
violenza,
ha sempre mostrato sentimenti di umana e commossa solidarietà
per
la popolazione, che sconta in modo bruciante sulla propria pelle una
situazione
che non ha scelto di vivere, quando si arriva in Calabria sembra quasi
che il copione sia già predisposto (con grandissima
professionalità,
s' intende) e che manchino solo i nomi dei nuovi (o vecchi)
protagonisti,
tutti legati alla maledetta etnìa locale: “Gesù, fai
morire
tutti i terroni”, dice una bambina torinese in una lettera
pubblicata
sulla “Stampa”.
*
* *
Certo,
sul piano locale non sono tutte rose e fiori. Il collasso del sistema
dell'
istruzione pubblica, la corruzione della pubblica amministrazione, la
gracilità
delle autonomie locali, incapaci di progettare e di spendere e cogliere
le opportunità dell’ UE, la debolezza di chi amministra di
fronte
all' aggressività vincente del sistema criminale sono cosa di
tutti
i giorni. Il personale delegato all' esecuzione dei grandi affari
prospera
e si tutela egregiamente. Ed è tanto abituato all'
impunità
(sia nelle guerre di mafia che in quelle di partito, che in quelle
combattute
nei corridoi degli uffici pubblici) che ormai è divenuto un
elemento
indipendente, assestante, autosufficiente, autopropulsivo, come un
cancro
che dilaga inarrestabile, a cui può porre freno soltanto la
società
civile, che malgrado tutto esiste, ed è maggioranza molto
più
di quanto non sappia essa stessa.
Bisogna
reclamare ed imporre che lo Stato, in tutti i suoi organi, centrali e
periferici,
faccia per intero il suo dovere. Si deve capire anche che lo Stato non
è soltanto un astratto “ufficio” che sta in Calabria o a Roma,
cui
spettano tutti gli obblighi per garantire una ordinata convivenza: lo
Stato è l' insieme dei comportamenti collettivi assunti di volta
in volta dalle persone delegate a rappresentarne le funzioni, dalla
più
umile alla più complessa, dall' usciere all' onorevole.
E
non solo: Stato è anche qualunque cittadino che decide di
attivarsi
per far rispettare le regole, il contratto sociale, il metodo
quotidiano
della democrazia e della partecipazione.
Si
può dire che per molti versi il colonnello Gheddafi è un
personaggio che ha assunto tesi discutibili. Ma sulle porte delle sue
ambasciate
c'è una frase (magari presa a prestito e rivenduta a buon
mercato)
che fa riflettere: “la democrazia non è dare la parola al
popolo,
ma dargli un ruolo”.
*
* *
A
chi tocca combattere i mafiosi? Prima allo Stato e poi alle
realtà
locali, prima alle popolazioni e poi ai ministeri che sarebbero spinti
dalla passione civile? Si deve cominciare da Palermo o da Roma (o da
Milano
e Zurigo?). E a che servono le denunce coraggiose (ricordarsi di Rocco
Gatto, assassinato dai mafiosi a Gioiosa Ionica, di Dionisio Crea,
vicesindaco
ucciso a Fiumara di Muro, del barone Cordopatri e di tanti altri) se
poi
ciò che chiamiamo “Stato” si mostra nolente?
Non
di rado esponenti più avveduti delle stesse forze dell' ordine
(e
della magistratura) mostrano di capire che la lotta fino in fondo ai
mafiosi
non paga, quando addirittura non si tramuta in una concreta minaccia
per
le loro vite o per le loro carriere. E ciò vale ancora di
più
a chi si batte concretamente per la società civile. Con loro, in
trincea, sono rimasti (sempre più bersagliati nell' intento di
precipitarli
nell' isolamento) pochi intellettuali.
Una
mobilitazione delle coscienze deve esigere che Stato e poteri locali
facciano
per intero il loro dovere. E si deve fare attenzione che queste
coscienze
di cui parliamo sempre non siano più corrotte dei corruttori,
verifichiamo
che le masse, inglobate e narcotizzate nel modello assistenzialismo -
sottosviluppo,
abbiano ancora una reale capacità di sdegnarsi, di mobilitarsi,
di progettare una società fondata sul lavoro, la
produttività,
la competitività.
Mass
media e predicatori di turno, oggi, di tanto in tanto mobilitano le
masse
per la pace nel mondo, la fame in India la lotta all' Aids. Ma è
là dove i diseredati di questo paese vivono che non si vede la
disperazione
quotidiana di migliaia di disoccupati, impotenti di fronte al crescere
delle rendite parassitarie. Ogni mattina a Reggio ci sono almeno 60.000
persone che si svegliano senza lavoro. Non protestano mai. Attendono la
raccomandazione per avere prima il “pezzo di carta” senza studio, come
premessa per avere il “posto” senza lavoro. Sono rassegnate, ma forse
possono
essere una grande risorsa, se si riattiva adeguatamente la fiducia in
uno
stato solidale e presente sui loro problemi.
Intanto,
nelle strategie di contrasto al fenomeno mafioso mancano del tutto
strategie
culturali
di base. Non solo nella scuola, ma anche con la creazione di
pubblicità
istituzionale; la messa in evidenza delle strutture economiche messe
sotto
sequestro ai mafiosi; l’intensificazione delle indagini patrimoniali
che
a tutt’ oggi mostrano un limite serio nel fatto che il 70% di
ciò
che è sequestrato viene poi restituito, accrescendo enormemente
il prestigio sociale dei criminali e la percezione nella
collettività
della loro oggettiva impunità.
L’impegno
pubblico di 500 miliardi, varato nel 2000 col sostegno della
Confindustria,
per rendere nel sud più tecnologicamente sicure strade e
autostrade
e più avanzate le sale operative e i mezzi delle forze dell’
ordine,
avrebbe potuto prevedere un minimo spazio per le strategie
culturali.
E’
inutile che si lancino accuse di omertà. Nessun cittadino che
abbia
deciso di collaborare con gli inquirenti è mai stato tutelato, e
molto spesso è stato smentito dall’ apparato giudiziario,
restando
solo di fronte alle vendette mafiose. Lo Stato deve garantire,
tutelare,
sostenere, proteggere, incoraggiare, gratificare chi lotta contro i
mafiosi,
visto che alla radice del problema è esso stesso, che con la sua
“neutralità” ha consegnato interi territori ad un potere, come
quello
mafioso, che non è “contro” ma “dentro”.